I

LA PERSONALITÀ STORICO-POETICA DEL LEOPARDI

La grande poesia del Leopardi ha provocato un enorme lavoro di interpretazioni e di ricerche critiche volte a cercare definizioni centrali, formule esaurienti, chiarimenti particolari di una cosí eccezionale personalità e della sua altissima espressione artistica.

E tuttavia solo in tempi relativamente recenti si è profilata una svolta decisiva (anche se ovviamente tutt’altro che priva di stimoli e spunti essenziali nel precedente corso del problema critico leopardiano) che attualmente appare non facilmente reversibile e tale da sorreggere tutto un ulteriore lavoro critico assai diversamente indirizzato rispetto al filone e all’impostazione centrale della critica anteriore a quella svolta e al nuovo corso della interpretazione leopardiana[1]. Pure nei limiti di una inevitabile schematizzazione ed estremizzazione, l’impostazione centrale che ha dominato a lungo – sulla base della grande interpretazione desanctisiana, ma con irrigidimenti di questa nella critica di tipo idealistico-crociano e in quella della «poesia pura» – può consolidarsi nella prospettiva della natura «idillica» della poesia leopardiana, frutto di una centrale disposizione della personalità del poeta alla contemplazione, all’introspezione tutta solitaria e distaccata dall’attrito della storia, alla morale di «uno spettatore alla finestra», di un uomo incapace di partecipare alla vita, e vivo solo nella liberazione catartica della poesia, ripugnante, nella sua direzione piú vera, ad ogni ibridazione con le forze del pensiero e dell’intervento storico, pena la sua caduta nell’oratoria e nella discorsività raziocinante e sterilmente impoetica. Sicché, al margine estremo di tale impostazione si poté giungere a parlare del Leopardi come «ultimo divino pastorello d’Arcadia» o di personaggio umanamente non molto diverso dal Metastasio, ritrovando magari nel suo pessimismo qualche consonanza reazionaria con le posizioni sanfedistiche del padre Monaldo[2] e sostenendo l’idea che la vera morale leopardiana era quella di un escluso dalla vita e perciò incline alla morale stoica dell’astensione e del disimpegno.

Ora la nuova svolta e il nuovo corso critico si sono caratterizzati proprio per una diversa valutazione della personalità leopardiana (e quindi della sua poesia), ricca di potenzialità complesse e difficilmente livellabili, ma fondata su di una radice di forza energica, di volontà di intervento a livello di problemi storici, culturali, letterari, esistenziali, di morale eroica variamente affermata e variamente operante, nel lungo arco dell’esperienza leopardiana (e soprattutto matura e sicura nell’ultimo periodo di questa), ma sostanzialmente vibrante, almeno come aspirazione, anche quando essa sembra cedere al peso degli scacchi e delle delusioni. Come può risultare da quell’importantissimo preambolo alla traduzione del Manuale di Epitteto del ’25 che, predicando l’utilità dell’astensione in «spiriti deboli per natura o debilitati dall’uso dei mali», precisa autenticamente come a quella pratica provvisoria il Leopardi si fosse ridotto «quasi mal suo grado» e insieme esalta appassionatamente la morale eroica come propria degli spiriti grandi e forti «che non potendo procacciarsi» «la beatitudine né schivare una continua infelicità» si ostinano «nientedimeno in desiderarli e cercarli ansiosamente e contrastano» «almeno dentro se medesimi alla necessità» e fanno «guerra feroce e mortale al destino come i Sette a Tebe di Eschilo e come gli altri magnanimi degli antichi tempi»[3].

Sicché quella pratica di utile «noncuranza delle cose di fuori» («quantunque niente abbia di generoso») appare chiaramente come una via secondaria e accessoria e non promuove (come appunto non avviene in quella fase piú veramente depressa) quel complesso moto del fascio intero di forze morali, intellettuali, sentimentali, da cui ha origine, con varie gradazioni e varie direzioni di poetica, la poesia leopardiana.

E soprattutto questo va decisamente affermato di contro alla tesi della natura idillica e puramente idillica della poesia leopardiana. La poesia leopardiana piú intensa ed alta (nella stessa fase piú qualificabile come «idillica» nel senso leopardiano di quella parola: «idilli esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo»[4]) non nasce da una separazione «depurante» della forza fantastica da quella dell’intelletto e della prospettiva morale, ma proprio invece dalla collaborazione e dal ricambio ed attrito dell’intero fascio di forze della personalità leopardiana, della sua fortissima coscienza morale, della sua tensione intellettuale e pragmatica, tanto diversamente profilate nella loro direzione fondamentale e nel loro rapporto con la storia e con la ricerca di una verità non astratta, ma destinata alla prassi del comportamento umano, da rendere tutt’altro che assurda – almeno nei suoi termini piú generali – la delineazione del Luporini di un Leopardi «progressivo» nello sviluppo del suo pensiero e nella tenace lotta con le ideologie della Restaurazione. Né quella collaborazione naturalmente va intesa come un «dopo» della poesia che mitizza un materiale separatamente elaborato e formato dal pensiero, ma, ripeto, da un ricambio e da una convergenza in cui la poesia si alimenta del pensiero e insieme ad esso collabora, con la sua forza di intuizione tanto diversa da una semplice catarsi e da un rasserenamento idillico dei suoi contenuti sentimentali e conoscitivi.

Nella svolta critica di questi ultimi decenni si son venute ponendo le basi di una comprensione piú storico-critica del Leopardi nella sua possente personalità, nella ricchezza delle sue forze (perfino la filologia leopardiana è stata riconosciuta non come peso erudito, come semplice materia e pretesto di nostalgie idilliche raffinate delle «favole antiche», ma come autentica vocazione e forza del suo ingegno e solo su tale base sostegno di acutissima forza critica e stilistica[5]) e nella loro integrazione e ricambio, nella sua prospettiva di poeta portatore – con la voce autentica e la novità originalissima della poesia – di una persuasione eroica, di una intransigenza morale, di un coraggio della verità, di un pessimismo energico, inseparabili da un’assidua battaglia nella storia del suo tempo e da una esperienza (sofferta fino al «martirio») della condizione umana, avvalorata dalla testimonianza concreta delle sue stesse malattie fisiche, delle sue pratiche sconfitte, mai interamente accettate in forma inerte e passiva, e progressivamente commutate in una sempre piú densa protesta storica ed esistenziale di altissimo valore nella storia dell’epoca romantica e della sua crisi. La sua stessa poesia, culmine ed espressione profonda della sua esperienza totale, appare cosí tutt’altro che una consolazione e un idillio «senza passione»[6] e anche quando, nelle fasi meno scopertamente combattive ed eroiche, essa raggiunge i suoi toni piú pacati ed equilibrati, mai manca – al fondo – di una tensione profonda, di un raccordo con la sua pressione intellettuale e la sua drammatica esperienza e problematica. Sicché par di dover accettare (anche se estratti da una zona precisa della sua poetica prima delle Operette morali), per la comprensione della sua poesia, gli esiti della sua convinzione estetica secondo cui l’effetto della vera poesia è quello di cagionare «nell’animo de’ lettori una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni» e la poesia «ci dee sommamente muovere e agitare e non già lasciar l’animo nostro in riposo e in calma»[7].

La «radice» dunque della personalità e della poesia leopardiana non è idillica, ma tensiva, energica ed «eroica» (nel vario senso che tale parola prende negli atteggiamenti intellettuali, morali e poetici del Leopardi: coraggio della verità, opposizione e protesta personale e storica, lotta contro la scomparsa degli ideali e contro la mediocrità e stoltezza, contro gli inganni della ragione sterile o, poi, della natura matrigna), anche se, ripeto, questa è la radice degli atteggiamenti leopardiani e non la sua monotona e indiscriminata forma di poetica, cosí come sarebbe grave prospettare un Leopardi sempre e ugualmente inarcato e apertamente «eroico» decurtando tutta l’immensa ricchezza di componenti del suo pensiero, della sua poesia, della sua esperienza.

E del resto la posizione estetica del ’23, a ben vedere, è riassorbita – non annullata – nei pensieri sulla «lirica» corrispondenti alla genesi e allo sviluppo dei canti pisano-recanatesi del ’28-30 che, nella loro fertilità di anticipazioni sulla via delle meditazioni estetiche moderne (la «doppia vista» del poeta, la natura antimimetica della poesia, la sua genesi in una esperienza assolutamente autentica, sofferta, è presente nella composizione), non conducono però senz’altro verso certe nozioni novecentesche della «poesia pura» e del «puro frammento» poetico, se essi possono ammettere come «lirica lunga» lo stesso poema dantesco, con tutta la sua complessa costruzione intellettuale e profetica, perché «vi è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti»[8], e se essi puntano sempre sugli effetti vitali della «vera» poesia «contemporanea» (ché «essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per cosí dire, e ci accresce la vitalità»[9]) e cosí pur sempre diversificano la concezione leopardiana della poesia (còlta soprattutto nei suoi rapporti mai dimenticati col lettore e quindi in una dimensione mai tutta privata e senza destinazione di comunicazione) da quelle di una pura catarsi o gioia personale fine a se stessa[10] separata dalla vita e dalla stessa «società civile» in cui la poesia costituisce una forza essenziale ed autentica, senza con ciò divenire un dubbio unicum di compenso mistico alla inferiorità e vanità di ogni altra espressione della vita e della storia. La poesia è una tensione che si nutre di altre tensioni e che a queste contribuisce in un circolo denso e inscindibile.

Cosí, se a misurare la discriminante diversità della interpretazione idillica da quella piú recente sopraindicata, basterà riferirsi alla diversissima valutazione della mèta terminale e suprema del lungo itinerario leopardiano, la Ginestra, per me capolavoro sconvolgente e unitario e prima considerata invece, per lo piú, come predicazione oratoria illuminata da rari squarci idillici (o idillico-cosmici), occorrerà ben capire come a quello stesso capolavoro il Leopardi sia giunto non casualmente e miracolosamente, ma attraverso esperienze complesse, attraverso un lungo svolgimento di posizioni e di espressioni portate strenuamente sino in fondo e cosí dinamicamente collegato entro un’esperienza storico-personale e uno sgorgo di poesia di suprema organicità e ricchezza.

Ciò che caratterizza la personalità leopardiana è un impegno appassionato, «eroico» per il suo strenuo bisogno e coraggio di intransigenza intellettuale e morale, che porterà il Leopardi ad impostare ed esaurire fino in fondo – con l’ausilio di una mente vigorosa e implacabile – successive posizioni ed esperienze che riprendono la grande eredità del pensiero settecentesco rinnovandola energicamente alla luce della problematica primo-ottocentesca sia che il Leopardi attacchi lo «snaturamento», l’alienazione dell’uomo dalla natura, sia che poi viceversa aggredisca, con piú matura persuasione, gli inganni ed i miti ottimistici e provvidenzialistici che mistificano la reale condizione dell’uomo e il vero volto della natura e dell’ipotetico suo creatore. Al centro vi è una inesausta passione per l’uomo (anche quando appaiono elementi misantropici, di un amore deluso, «par trop aimer les hommes» per dirla con Stendhal in Lucien Leuwen), per la sua integralità, sia che essa venga ritrovata nella sua adesione alla natura e alle illusioni generose da quella generate, sia che essa venga poi confermata nella sua virile capacità di riconoscere la sua sorte misera e tragica, senza accettarla in maniera passiva e rassegnata. Al centro vi è una protesta e una contestazione attiva contro tutto ciò che depaupera e avvilisce le forze vere dell’uomo, sí che questo presunto «sombre amant de la mort» (Musset) o «religioso amante del nulla» (Vossler) ricava sempre dalla sua sofferta e coraggiosa indagine sulla natura e sull’uomo un supremo interesse per l’oggetto centrale della sua passione intellettuale, morale, poetica: l’uomo, spietatamente analizzato e magari assalito nelle sue stolte ideologie e nelle sue tentazioni di cedimenti e di rinuncia, come di boria e di orgoglio prometeico o platonico, ma sostanzialmente e disperatamente amato nella sua schiettezza e nella sua virile energia, nella sua desolazione consapevole e nel suo stesso destino di caducità che tanto fa risaltare il fascino, nel suo effimero passare, delle sue qualità autentiche di nobiltà e di gentilezza, nella sua capacità di essere uomo fra gli altri uomini.

Sicché la stessa vicenda concreta del Leopardi, fra vita e poesia, si prospetta non come la semplice «storia di un’anima», ma come un’esperienza drammatica dentro la storia e dentro la problematica dell’uomo di cui lo scrittore sonda ed esplicita le diverse possibilità fino a toccare i margini del nichilismo e dell’individualismo piú disperato, ma sempre riprendendo una linea attiva che culminerà nella prospettiva di solidarietà combattiva della Ginestra, mai pacificata con i vari «oppressori» dell’uomo, siano essi la ragione sterile e mortificante, egoistica e calcolatrice, siano essi la natura malvagia e una divinità neroniana, combattuta sino all’estremo della bestemmia piú ardita e ribelle.

Leopardi può toccare e rivelare, sull’onda della sua delusione storica ed esistenziale, i piú profondi motivi del nulla, della noia-angoscia, della vita come morte, ma mai manca di dare a questi stessi motivi, pur cosí potentemente individuati ed espressi, un valore di stimolo all’energia virile dell’uomo, alla nobiltà del suo coraggio di verità e di resistenza ribelle. E i suoi veri avversari non sono gli uomini, ma le loro immagini degradate dalla viltà, dalle menzogne interessate o sciocche, dalle ideologie spiritualistiche, religiose, reazionarie, e, dietro quelle, l’ordine naturale della realtà sbagliata e corruttrice.

Supremo contestatore dei sistemi storici della Restaurazione reazionaria o del moderatismo liberale-spiritualistico, Leopardi è insieme supremo contestatore del sistema stesso della realtà e del suo ordine ferreo e scellerato, di cui lo stesso appassionato sostegno al sistema benefico della natura (cosí diverso comunque da quello di un sistema religioso basato su di una doppia realtà terrena e ultraterrena) serve a rivelarne – proprio sostenendolo inizialmente e indagando poi sino in fondo – la piú vera realtà di ordine crudele e oppressivo per l’uomo.

Impossibile ricavare da questo percorso di esperienza una vera nota di religiosità magari «negativa» (si nega ciò che profondamente si ama, si cerca), ché Leopardi può sí bestemmiare la virtú e l’uomo per troppo amore, ma la sua protesta atea o antiteistica è senza possibilità di risalite da una specie di amore frustrato ad un’altra «fede»[11], e la via stretta delle sue definitive conclusioni è solo quella dell’uomo e della sua prassi di etica di solidarietà in un mondo deserto da ogni ombra divina e trascendente, liberato anzi appassionatamente da ogni ricaduta in quello che è l’oggetto polemico piú profondo del Leopardi: il misticismo, la religione, la speranza in un compenso ultraterreno.

Voltaire poteva ancora riequilibrare la disperata diagnosi dei mali dell’uomo, nel Désastre de Lisbonne, con la speranza in un mondo migliore e provvidenziale, se non per i singoli sulla terra, per il loro insieme in un mondo ulteriore. Leopardi nega ogni provvidenza per i singoli come per tutti, e proprio nel messaggio finale e conseguente della Ginestra ritrova una via di difficile e singolare «progresso» per l’uomo, proprio in quanto tutti gli uomini si raccolgono insieme nella lotta contro la natura e contro ogni provvidenza divina. Anzi per gli uomini è possibile questa via stretta della loro difficile civiltà solo se essi hanno scartato per sempre ogni ricorso a quelle speranze e a quei poteri e hanno riconosciuto nella loro crudele potenza il primo loro nemico e il primo fondamento polemico della loro unità nella lotta e nella protesta.

Perciò nella formazione dell’uomo moderno Leopardi ha un posto a suo modo decisivo e una forza dirompente ed eversiva che non possiamo riconoscere ad altre personalità della crisi romantica, e la sua prospettiva interamente laica ed umana appare come la piú formidabile voce ammonitrice di fronte ad ogni riaffiorare di soluzioni trascendenti e fideistiche. E il suo stesso profondo sentimento democratico (il sentimento della sorte comune e del comune dovere di solidarietà e di lotta per la civiltà umana) appare tanto piú profondo quanto meno riconosce qualsiasi «sen regale» non solo in terra, ma anche in cielo, qualsiasi radice trascendente di autorità: l’uomo è solo con i suoi simili e solo con loro può e deve tentare la costruzione ardua della propria civiltà. Cosí la prassi tutta umana sostituisce ogni ricorso metafisico e l’uomo sulla terra, cupamente risonante dell’eco ossessiva della caducità, si stringe con i suoi «incolpevoli» fratelli, «confederati» contro la natura e stretti dal vincolo severo e preclusivo della consapevolezza coraggiosa della loro vera sorte limitata e tragica e del loro dovere di solidarietà unicamente umana e sociale.

E se nella storia successiva appare incontestabile l’apporto possente della dialettica hegeliana e i suoi sviluppi soprattutto nel materialismo storico e dialettico, la non conoscenza, da parte del Leopardi di tale nuova prospettiva non può portarci né a svalutare né ad esaltare indiscriminatamente, alla luce dei nostri problemi attuali, la sua diversa posizione, ma certo a riconoscerla estremamente importante, come essa storicamente si configurò, acuendo cosí la sua forza di diagnosi della tragica condizione umana, valida comunque come momento essenziale nella rottura delle concezioni ottimistiche, provvidenzialistiche, religiose, nella percezione profonda di una realtà sbagliata e di un ordine ingiusto che nessuna infatuazione dialettica può interamente sopire e sanare, come avvertimento contro troppo facili entusiasmi di nuovi paradisi in terra e come base di una lotta strenua, doverosa, pratica, sociale, sempre consapevole di limiti umani materiali e biologici e non perciò respinta a nuovi richiami di compensi trascendenti ed evasivi.

Perciò anche sarà da dire che la filosofia sensistica materialistica di origine illuministica su cui si fondò nel suo sviluppo il Leopardi non può essere storicamente qualificabile come un «carcere» da cui Leopardi si libererebbe con la sua «poesia», ché essa per lui e per quella fu viceversa storicamente forza essenziale nella sua resistenza ai compromessi delle ideologie della Restaurazione e alle tentazioni di un romanticismo spiritualistico e neocattolico, medievalizzante e mistico, nel cui stesso attrito Leopardi poté, d’altra parte, dare altro vigore al suo stesso slancio al sogno, alla fantasia, al sentimento, di quanto sarebbe avvenuto (lo insegna anzitutto, come vedremo, l’Infinito) se egli si fosse abbandonato alla verie romanzesca e al patetico languido ed evasivo di tanta letteratura romantica.

Ché nella stessa componente «idillica» (cosí essa stessa singolare e lontana nel suo centro da un idillismo descrittivistico e misticheggiante) vive un profondo rilancio di un severo edonismo sensistico coerente ad una storia di esperienza concreta di se stesso e dell’uomo, mentre essa non appare mai priva interamente di raccordi con gradazioni di sentimenti e motivi di poesia-conoscenza e di poesia come modo di recupero (il caso dei cosiddetti «grandi idilli» del ’28-30) del passato e di persone scomparse o di verifica di persuasioni intellettuali nel senso della vitalità piú schietta ed autentica e dunque sempre in un’impossibile accezione di semplice sogno e mito evasivo di rinnovata Arcadia o di privatistica degustazione descrittivistica di uno «spettatore» senza passione e senza interna pressione di fondamentali problemi esistenziali e storici.

Sicché la stessa ammissione di momenti di poetica idillica (e a volte di margini piú slittanti nella direzione di un compiacimento idillico fine a se stesso) richiederà, a suo luogo, attenta precisazione e qualifica assai diversa da quella della tradizione critica di tipo crociano o derobertisiano e persino da quella tanto piú complessa e originariamente fertile della tesi idillica desanctisiana, spesso viceversa insidiata pur fortemente dalla paura dell’allegorismo e dall’attrazione per una troppo realistica felicità di «quadretti alla fiamminga»[12].

Infine per quanto riguarda la posizione classicistica del Leopardi dovrà ancora notarsi come essa costituisca un’ulteriore forza della personalità e della poesia leopardiana a difesa dalle attrazioni romantiche piú sentimentalistiche e spiritualistiche (con tutto ciò che il classicismo comportava sulla forza di elaborazione stilistica e di riferimento ai valori classici eroici, razional-naturali), ma che sarebbe erroneo chiudere il Leopardi in una schematica e chiusa definizione del classicismo (ribaltata a generale equazione classicismo-progressismo di fronte a romanticismo-reazione) senza tener conto dell’enorme acquisizione nella formazione leopardiana delle inquietudini preromantiche e dello stesso attrito non solo polemico con il romanticismo, se la stessa finale prospettiva della Ginestra supera di gran lunga ogni pura equivalenza di classicismo e vive di un’accensione e tensione male immaginabili senza un contatto profondo con l’esaltazione romantica delle forti passioni e della poesia-messaggio, cosí come l’illuminismo vi si colora di una ben romantica tensione spirituale e sentimentale-naturale mal riconducibile alle possibilità della poesia della «saggezza» illuministica[13].


1 Tale svolta, per consenso ora di vari leopardisti, è particolarmente legata all’uscita contemporanea, nel 1947, del mio volume, La nuova poetica leopardiana (Firenze, Sansoni, 1947, ripubblicata nel 1971 in quarta edizione: quel volume sviluppava la tesi già sommariamente esposta in un breve scritto del ’35, Linea e momenti della lirica leopardiana, in Sviluppi delle celebrazioni marchigiane, Macerata, 1936) e del saggio di C. Luporini, Leopardi progressivo, in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze, Sansoni, 1947. Poi questa svolta si è arricchita di un vasto convergere di contributi, fra i quali (compresi quelli miei, successivi al ’47) spiccano indubbiamente quelli di S. Timpanaro (soprattutto nel volume Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1965, 1969²).

2 Si pensi soprattutto al grave avvicinamento, da parte del Croce, fra Giacomo e Monaldo a proposito delle Operette morali: «Certe volte nel leggere i dialoghi delle Operette morali si presenta con insistenza al ricordo (non sono io che ho provato per primo quella impressione perché vedo ora che la provò anche il Pascoli) certi altri Dialoghetti vergati dalla penna reazionaria del conte Monaldo». La somiglianza sarebbe non solo nel genere accademico, nella ripresa lucianesca, ma «anche nello spirito angusto, retrivo, reazionario, nell’antipatia pel nuovo e vivente» (Poesia e non poesia, Bari, 3ª ed. 1943, p. 105). Ma si pensi anche – pur con il doveroso riconoscimento di una netta differenziazione quanto alla diversa «direzione» e all’«altezza spirituale e intellettuale» – al piú recente avvicinamento fra padre e figlio, quale è abbozzato in una nota del libro di U. Bosco, Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi, Firenze, 1957, p. 18: «Non so se sia stato osservato che dell’orgoglio di essere fedele a se stesso, di andar contro corrente, il Leopardi aveva un esempio assai vicino, anche se di direzione opposta alla sua, e sostenuto da assai minore altezza spirituale e intellettuale, suo padre, Monaldo-Musoduro». Tale qualità di «esempio» di Monaldo per Giacomo non può non apparire rischiosa di fraintendimenti, specie se venisse estesa al di là di una primissima e ingenua ammirazione del fanciullo Giacomo per il padre, e richiederebbe comunque un lungo discorso su ciò che realmente Monaldo fu, con il suo incontro fra caparbietà nobiliare-reazionaria e fondo di «buonsensaio» e di «testa quadra», con una buona dose di «prudenza», di ipocrisia, di slealtà (si ricordino bene i suoi rapporti con Giacomo e la lettera di questo al padre in occasione del tentativo di fuga del ’19), come la sua ironia e la sua scrittura rivelano una personalità grossolana e piuttosto ottusa e compiaciuta, ripeto, del proprio «buonsenso» cosí mediocre e piatto. Ben altri erano gli «esempi» cui Giacomo si ispirò specie da quando egli superò la primissima fase «puerile», e prese coscienza chiara di se stesso, delle sue scelte e della sua situazione recanatese e domestica (in cui il «tiranno Amostante» degli scherzi fanciulleschi divenne veramente il tiranno e il carceriere di Giacomo): uomini vivi come il Giordani, e, piú, autorità ideali come l’Alfieri, oggetto di culto per il giovane Leopardi e oggetto di avversione fanatica da parte di Monaldo, che cosí concludeva (nella «Voce della ragione», del 1832) un suo livido e rozzo ritrattino del grande poeta piemontese: «Il signor conte, anima benedetta, non fu né buon suddito né buon cristiano; fu filosofo in tutta l’estensione del termine, morí senza lo scomodo dei sacramenti, e insomma per essere una bestia gli mancavano solamente due gambe». Inutile poi insistere su certe sintomatiche simpatie per Monaldo in netta chiave di «restaurazione» o meglio «reazione» culturale (o di snobistica e qualunquistica moda di «riscoperte»): valido ancora (anche se desiderabile sarebbe uno studio approfondito sul personaggio di Monaldo, con sviluppi di spunti di interpretazione in sede politica – Salvatorelli – e in sede di pubblicistica popolar-reazionaria – Bertoni Jovine –) il durissimo ritratto monaldesco nell’introduzione di Moravia alla sua edizione di alcuni Dialoghetti (Viaggio di Pulcinella, Roma, 1945).

3 G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di W. Binni (con la collaborazione di E. Ghidetti), Firenze, Sansoni, I, pp. 492-493. D’ora in poi in tutto il volume le citazioni leopardiane saranno fatte da questa edizione, indicata con l’abbreviazione Tutte le op. cit.

4 La definizione si trova nei Disegni letterari, XII (1828), Tutte le op. cit., I, p. 372, e vale soprattutto per i cosiddetti grandi idilli pisano-recanatesi. Ma come non riferirla anche ad una poesia quale l’Infinito?

5 È il risultato dell’importante libro di S. Timpanaro jr., La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze 1955. Si veda ora anche il lucido saggio di G. Pacella, La filologia di G. L. fra Settecento e Ottocento, nel volume miscellaneo Leopardi e l’Ottocento, Firenze 1970, pp. 469-492.

6 Cfr. il pensiero dello Zibaldone del 26 gennaio 1822, Tutte le op. cit., II, p. 612, in cui il Leopardi condanna (alla luce di una concezione della poesia che «metta» il lettore «in attività e lo faccia sentire gagliardamente») «le pitture di paesi, gl’idilli ec. ec.» «le pitture di pastorelli, di scherzi ec. di esseri insomma senza passione».

7 Zibaldone, 5-11 agosto 1823, Tutte le op. cit., II, pp. 786-787. E si v. anche il pensiero contro i drammi a lieto fine, 16-18 settembre 1823, Tutte le op. cit., II, p. 862: «E una poesia che lascia gli affetti de’ lettori o uditori in pienissimo equilibrio si chiama poesia? produce un effetto poetico? Che altro vuol dire essere in pieno equilibrio, se non esser quieti, e senza tempesta né commozione alcuna? e qual altro è il proprio uffizio e scopo della poesia se non il commuovere, cosí o cosí, ma sempre commuover gli affetti?».

8 Zibaldone, 3 novembre 1828 (Tutte le op. cit., II, p. 1195).

9 Zibaldone, 1 febbraio 1829 (Tutte le op. cit., II, p. 1208).

10 Persino nel pensiero piú «privato» la poesia ha comunque un nesso con il futuro del poeta, che nel rileggere da vecchio la propria poesia proverà una nuova commozione e riscalderà la sua vecchiezza «col calore della sua gioventú» (cfr. Zibaldone, 15 febbraio 1828, Tutte le op. cit., II, p. 1155).

11 Pur nella necessaria cautela storica di fronte ad ogni attualizzazione indiscriminata – nella ricerca di un equilibrio pur difficile fra la «nostra» attrazione per un poeta cosí ricco di anticipi moderni e il rispetto della sua reale posizione storica – che pur poi si rivela motivo di ribadita certezza della grandezza di un uomo che sembra «aver capito tutto» con anticipi problematici e orientativi rispetto alla stessa «scienza», come non ritrovare consonanze impressionanti fra la matura posizione leopardiana antiteleologica e antiteleonomica, antiprovvidenzialistica, fra la sua rottura profonda e rivoluzionaria dell’antica «santa alleanza fra uomo e natura» (prima da lui sostenuta e cercata disperatamente e quindi sofferta e consumata in un’esperienza totale), fra la sua conclusione sulla solitudine degli uomini in un universo «non programmato» e non accordato a un fine di armonia e di felicità per gli esseri viventi, e le recenti conclusioni scientifiche (siano pur esse ancora ipotesi alla luce di un drammatico dibattito in corso su vari versanti ideologici) del biologo Jacques Monod nel suo libro Le hazard et la nécéssité (Paris, 1970): «L’ancienne alliance est rompue: l’homme sait enfin qu’il est seul dans l’immensité indifférente de l’univers d’oú il a émergé par hazard. Non plus que son destin, son devoir n’est écrit nulle part. À lui de choisir entre le Royaume et les ténèbres» (pp. 194-195). In certo senso le conclusioni della Ginestra, che entro la storia del primo Ottocento si presentano in modo tanto piú fertilmente problematico e drammatico, e insieme perentorio, implacabile, energico sul tema della tutta umana doverosità della solidarietà combattiva degli uomini (l’uomo che sa, deve scegliere la «luce» della verità contro le «tenebre» dell’ignoranza e dei miti interessati e reazionari), anche di fronte alle stesse esaltazioni materialistico-mistiche di Feuerbach e, tanto piú, alle ribellioni titanico-orgogliose e agli appelli di solidarietà piú enfatici e insieme piú morbidi e femminei di molti rappresentanti della crisi romantica.

12 Circa l’interpretazione leopardiana del De Sanctis, nella sua grande complessità e nei suoi limiti storico-personali, rinvio al mio saggio De Sanctis e Leopardi (in Carducci e altri saggi, Nuova edizione, Torino, Einaudi, 1972) e alla lunga postilla aggiunta in quella nuova edizione, postilla che sui limiti dell’interpretazione desanctisiana insiste pur ribadendone l’estrema fertilità di suggerimenti sempre vivi (anche in contrasto con la tesi centrale della «natura idillica» leopardiana) e ben rilevando la forte decurtazione che la interpretazione desanctisiana subí da parte del Croce.

13 Tanto che Vittorini avrebbe potuto ben applicare al caso supremo del Leopardi la sua stimolante proposta delle «due tensioni», proprio nell’incontro, non categoriale, ma storico, della tensione razionale illuministica e della tensione emotiva e naturale del romanticismo («il sentimento senza la persuasione è nullo» dice Leopardi, ma si potrebbe aggiungere, anche proprio per lui, che la persuasione senza il «sentimento» non è vera persuasione). E si veda il consenso con me, su questo punto importante, di L. Baldacci nella sua recensione (in «Epoca», 1970) alla mia introduzione a Tutte le opere che qui ripubblico.